Il fascino della maschera

 

Il simbolismo e l’uso della maschera nascondono un atavico e complesso significato che attraversa ogni comportamento dell’uomo: dalla guerra alla morte, dalla festa alle espressioni artistiche, fino a giungere ai rituali religiosi, magici ed esoterici. La maschera per sua natura nasconde, elude le emozioni, mistifica i sentimenti, ma non solo: essa contiene, impedisce e trasforma. Ecco perché non si può parlare genericamente di “maschera”: c’è quella magica di emulazione, quella teatrale, quella funeraria, quella mimetica, fino ad arrivare alla più banale, quella di protezione.

Ovviamente nel tipo di analisi che andremo a fare non rientrano le maschere di uso utilitaristico o protettivo quali sono stati gli elmi con visiera degli antichi guerrieri oppure le maschere da saldatore, quelle antiapi, antigas, antismog, ecc. Ciò che da un punto di vista culturale, magico o semplicemente antropologico diventa interessante è la maschera fine a se stessa, quella che non presuppone alcuna forma di utilità, che non serve per non farsi riconoscere o per commettere reati o semplicemente per manifestare atteggiamenti licenziosi, come era in passato per il Carnevale di Venezia o altri simili, dove, senza essere riconosciuti, si poteva dare libero sfogo all’erotismo. Attraverso il mascheramento l’uomo cela agli altri, ma anche a se stesso, la propria identità, tanto che qualsiasi azione, anche la più infame, sembra decolpevolizzare colui che la compie con il trasporre il gesto nel personaggio in cui si cela. È proprio in tal senso che si deve concepire il “mascheramento sacro” perché il rituante, lo sciamano, il sacerdote, si spersonalizzano interpretando la divinità o lo spirito invocato: gli Aztechi portavano la maschera durante i loro riti cruenti, così come la portavano (e la portano) gli stregoni di alcune civiltà primitive quando “comunicano” con vere o presunte “entità incorporee” e come la indossano, infine, sia i processionanti in alcune rievocazioni cristiane, sia i rituanti delle cerimonie sataniche. L’uso della maschera diventa così un mezzo non solo per comunicare col “divino” ma anche un sistema che permette, celando il vero volto, di proteggere l’anonimato dall’eventuale “vendetta” delle entità stesse (un po’ come la lettera o la delazione anonima che raggiunge lo scopo senza danneggiare l’autore).

Le maschere del teatro classico, a cui in passato era stato erroneamente attribuito il potere di amplificare la voce, servivano per identificare il personaggio al di là dell’interprete che così rinunciava alla sua personalità nel nome più alto dell’“arte”: d’altra parte in latino “maschera” significa “persona” ed Eraclito diceva che “il destino dell’uomo è di essere la maschera di un dio”.
I Padri della Chiesa videro il travestimento e le maschere, comprese quelle teatrali, come un qualcosa di diabolico evocante gli antichi dèi, ai quali non a caso avevano attribuito sembianze e atteggiamenti demoniaci e anticristiani. Per questo furono proibite tutte le forme di arte che prevedevano, come il teatro classico, l’uso di questo accessorio. Per la verità si è cercato anche un “appiglio teologico” che avvalorasse una presa di posizione non certo ben accettata da tanta parte di popolazione: poiché il volto dell’uomo è fatto a “immagine di Dio”, il nasconderlo è come rifiutare Dio stesso.

Una posizione totalmente diversa si ha nelle civiltà dell’Oriente, dove la maschera ha un potere esorcistico che, esteriorizzando l’aspetto demoniaco, fa affiorare la parte negativa in modo tale da renderla palese e scacciarla. Tipici esempi di evocazione con maschera per l’emersione e la messa in fuga del male sono i rituali teatrali di Bali o le feste cinesi del teatro No, celebrati al rinnovarsi dell’anno. Esiste poi, in alcune tribù pellerossa americane, una tradizione veramente unica dove l’uso della maschera rappresenterebbe il ricordo di quella parte errata della creazione, fatta di esseri deformi e mostruosi, alla quale (in un pensiero dualista) sarebbe seguita quella creazione “perfetta” che tutti conosciamo.

Un discorso a parte va fatto per le “maschere funerarie”. Qui veramente si passa dal folklore antropologico ad un esoterismo filosofico e concettuale che affonda le sue radici in conoscenze ancestrali di difficile derivazione. Se i ritrovamenti delle prime forme di maschera (la più antica che si conosca, di selce, appartenne probabilmente ad un neanderthaliano di 32.000 anni fa) hanno avuto una risposta storicamente razionale, quando si cerca di capire il significato della maschera funeraria – sia essa egizia, minoica, greca o incaica – è oltremodo limitativo e superficiale parlare solo di uno strumento, la maschera appunto, utilizzato quale forma esorcizzante di passaggio (inganno del travestimento) tra la vita e la morte. Nell’Antico Egitto la maschera funeraria altro non era che uno degli elementi magici il cui punto culminante era rappresentato dalla mummificazione: essa doveva servire cioè alla “rigenerazione” del defunto. La maschera avrebbe dovuto trattenere nella mummia il “soffio delle ossa” e gli esoteristi sanno bene quanto ciò sia pericoloso per coloro che non hanno ancora raggiunto un certo livello spirituale. In parole più povere, la maschera funeraria avrebbe dovuto captare la forza vitale che sfugge al momento della morte, per tenere così ancorata la persona alla materia. E qui si potrebbe aprire una bella discussione anche per quanto riguarda le presunte maledizioni che hanno colpito coloro che, anche se per motivi scientifici, hanno “tolto la maschera” alle mummie dei Faraoni.

– Antonio Roberto Ricasoli del Centro Studi Ricerche Culturali di Prato (dal GdM 462) –